Ed in Malaysia si ci siamo arrivate dopo un lungo ed estenuante viaggio. Tra taxi, motorini, bus, pullman.
E siamo pure state fregate. Dopo il primo taxi ci hanno portato in motorino in un agenzia piccolissima dove hanno controllato i documenti e la signora ci ha detto che era indispensabile entrare in Malaysia con banconote locali. Il che era alquanto strano ma noi ingenue e soprattutto talmente esauste per renderci conto ci abbiamo creduto cambiando proprio nella stessa agenzia dei soldi. Arrivate in Malaysia abbiamo collegato che la cara signora, che inizialmente sembrava così carina e gentile da tutelarci, ci ha fregato con il cambio intascandosi una bella cifra.
Kuala Lampur. La capitale della Malaysia. L’abbiamo vista per la prima volta alle cinque di mattina.
Dopo tredici ore di viaggio siamo state scaricate in una stazione del pullman, ad un’ora da KL. Scaricate nel vero senso della parola.
Viaggiando con i mezzi pubblici, solitamente evitati dai turisti ma usati solo dai backpackers, non si sa mai come andrà a finire. Puoi trovare gente per bene che per lo meno risponde alle tue domande quando hai bisogno di informazioni oppure puoi trovare gente che ti disprezza perché sei occidentale e di darti una mano non ha la benché minima intenzione. Io e Viola ne abbiamo incontrati diversi così.
Ad ogni modo siamo state scaricate in questa stazione, senza nessuna direttiva. Ci dicono di aspettare, ma non sanno dirci quanto tempo e i due signori al centro d’infomazioni sembravano molto divertiti a vederci distrutte imprecare perché passavano almeno cinque autobus all’ora diretti a KL ma nessuno di quelli, a quanto dicevano, era il nostro. Verso le due di notte i due signori escono dall’ufficio e chiudendo ci dicono di andare nell’altra parte della stazione, chiedere di un tipo e salire sul suo bus. Ci avevano preso in giro fin dall’inizio insomma. Spero si siano divertiti.
Eravamo di notte in una stazione, due ragazze straniere in mezzo a tutti locali e per lo più maschi che ci guardavano tutti in malo modo. Ho provato la sensazione di essere straniera, nel posto sbagliato e anche un filo di paura. Per fortuna poi siamo salite sull’autobus che in Malaysia sembrano più dei salotti. Le poltrone sono enormi e comodissime e se tiri giù lo schienale e alzi il poggiapiedi sembra di essere sul divano di casa, giuro senza esagerare!
Alle quattro e mezza siamo arrivate finalmente a KL, ma dovevamo ancora cercare l accomodation. Ci fidiamo di un taxista che sembra avere una guest house perfetta per noi. Arriviamo e ovviamente il posto era improponibile, i vaccini che avevamo fatto non erano sufficienti per sopravvivere neanche ad una nottata lì dentro.
Ripartiamo a piedi stavolta e ci troviamo dopo poco a china town in compagnia di ratti enormi che sbucavano da ogni parte, e sempre in loro compagnia troviamo finalmente rifugio.
Pensavo di trovare KL una città asiatica un po’ come tutte le altre. Povera e ricca allo stesso tempo, dove baracche e grattacieli sembrano convivere senza sapere uno l’esistenza dell’altro.
Invece no, il livello era molto più alto di tutte le altre città in asia che avevo visitato. Non c’erano mendicanti malformati in giro per le strade e la gente sembrava star bene economicamente.
I malesiani sono per la maggioranza musulmani ed è molto piacevole incontrare per strada donne avvolte nei loro caftan coloratissimi e pieni di lustrini. Per una volta vedevo quelle donne nel loro ambiente, e le trovavo bellissime.
Un pomeriggio siamo state in visita ad una delle moschee più grandi della città nella zona più verde che offre attrazioni come il parco degli uccelli, delle farfalle e delle orchidee. Tutti posti carini per fare una passeggiata fuori dal traffico, molto più accettabile che a BKK.
Nella moschea ci hanno vestite con una lunga tunica e coperto i capelli con un cappuccio, mi sembrava di soffocare. Una volta dentro abbiamo trovato un simpatico signore che gratuitamente ci ha fatto da guida e ha spiegato in maniera molto semplice i principi dell’Islam e come purtroppo in occidente è mal visto a causa dei gruppi estremisti.
La visita nella città è continuata poi per due giorni interi e sufficienti grazie all efficienza dei trasporti pubblici da una zona all’altra. Sono rimasta molto sorpresa da tutti i centri commerciali che non mi aspettavo assolutamente. Ce ne sono di veramente belli come Pavillon, nella zona che mi è parsa la più ricca forse grazie ai numerosi localini all’aperto.
Ovviamente l’attrazione maggiore della città sono le Petronas Twin Tower, dette anche Menara Petronas per via del nome che porta la società petrolifera che le ha costruite, che dall’alto dei loro 452 metri sembrano vegliare su tutta la città e ne hanno fatto il simbolo del progresso economico della Malaysia. Sono due torri gemelle unite da un ponte a 171 metri di altezza.
Più che dei grattacieli sembrano un monumento di acciaio e vetro che ti lascia a bocca aperta la notte quando si illuminano di una luce bianca inverosimile.
Splendide.
Petronas Twin Tower.
Menara Petronas.
Una giornata l’abbiamo dedicata ad una gitarella a Melaka. Cittadina che porta i segni di tutti i popoli che l hanno posseduta.
“Melaka è uno di quei posti pieno di morti.
E i morti bisbigliano.
Bisbigliano in cinese, portoghese, in olandese, in malese, in inglese. Alcuni bisbigliano anche in italiano e in altre lingue che non si parlano più ma poco importa: le storie che i morti di Malacca raccontano sembrano non interessare più a nessuno.
I cinesi sbarcarono nel 1409 ma non vollero Melacca per sé, solamente la possibilità di abitarci e usufruire del porto ideale come base da muoversi nel sud est asiatico. Portarono cinquecento ragazze da sposare, e l’accordo fu un successo.
Nel 1511 arrivarono i portoghesi, loro da conquistatori. Il sultano si salvò scappando ma il suo palazzo fu raso al suolo e il suo tesoro saccheggiato. Tre delle 18 navi ripartirono cariche del bottino ma colpite da un improvvisa tempesta affondarono poco dopo esser salpate. Giacciono ancora sul fondo melmoso del mare, intatte. Delle riserve d’oro del sultano resta un mistero.
I portoghesi sono stati poi cacciati dagli olandesi e loro a sua volta cacciati temporaneamente dai giapponesi. Tutti partirono lasciandosi dietro monumenti, tombe, ricordi, leggende e tantissimi fantasmi. Melacca è oggi la città più stregata del mondo. Ci sono belle case in cui nessuno vuole abitare, e case in cui non si è mai soli.
Ogni sera tra le rovine della fortezza portoghese la gente vede le sagome di due giovani abbracciarsi, lui un marinaio lei una suora scoperti a far l amore e condannati a morte. Lui decapitato e lei murata viva, ma la passione continua.
Cose strane erano successe nelle fabbriche della Siemens e in altre fabbriche del posto. Nella prima le guardie messe ai cancelli vedevano strani tipi che entravano e uscivano senza registrarsi e ogni volta che qualcuno tentava di fermarli, diventavano come aria e sparivano per ricomparire dopo poco. In un’altra fabbrica di scarpe una donna si era improvvisamente messa a urlare, a strapparsi i vestiti e a correre come una pazza. In un batter d’occhio tutta le donne la imitavano e la fabbrica erano in subbuglio. C’erano voluti tre giorni e il sacrificio di una capra per pacificare gli spiriti e normalizzare la situazione.
Molti missionari passavano per Melaka a riposarsi nel seminario francescano. Il più famoso fra questi uomini di Dio, venuti in asia non con la spada ma con il crocifisso, resta Francesco Saverio, gesuita spagnolo che li fece i suoi primi miracoli. La storia della sua salma non ha niente da invidiare alle storie di superstizione dell’ asia misteriosa. Il cadavere è ancora oggi intatto ma mutilato perché ogniuno per conservare un ricordo gli asportava qualcosa, un dito, un braccio. Nel corso dei secoli sono state mozzate tutte le dita dei piedi tranne l alluce e perfino l orecchio sinistro. Un braccio è a roma, uno a Macao e il resto a Goa dove viene esposto un mese ogni dieci anni. L’unico posto rimasto senza un osso del santo è proprio Melacca e per secoli non è esistita neanche una statua in suo onore poi nel 1953 il vescovo ne ordinò una di marmo e la fece mettere in cima alla collina del porto. Passò un po’ di tempo e una notte, durante un temporale, dall’albero li accanto cadde un ramo che spezzò netto – guarda caso – l’avambraccio destro della statua: proprio quello che era stato amputato alla salma. La statua è ancora così, mutila.
La gente faceva poi attenzione a non mandare i bambini in riva al mare dopo il tramonto perché gli gnomi li rapivano. Nessuno li ha mai visti ma si sa che ci sono perche lasciano dietro di se una scia di profumo. Un giorno un bambino era stato rapito e ritrovato da un bomoh dentro un albero di cocco. La bocca era piena di cacche di gallina, che gli gnomi, non sapendo bene di cosa si cibano gli umani, gli aveva dato da mangiare. “ dal libro UN INDOVINO MI DISSE di TIZIANO TERZANI.
Melaka è una cittadina sul mare non troppo grande ed è interessante vedere che ogni popolo ha lasciato la propria, ben visibile, impronta. Le case e i monumenti del centro di Melacca sono tutti dipinti di rosso. Quando gli inglesi conquistarono la città e distrussero la fortezza e altri grandi monumenti portoghesi, permisero che le costruzioni olandesi restassero in piedi ma fossero dipinte di rosso per distinguerle da quello che dopo avrebbero costruito loro. Questi monumenti ci sono ancora e il centro di melacca si chiama la piazza rossa.
Una cosa che mi aveva fatto un certo effetto era stato il viaggio in autobus da KL a Malacca. Seduta, o meglio dire sdraiata su comodissime poltrone nel vipbus costato credo sui 50centesimi per due ore di tragitto, guardavo fuori dal finestrino in cerca di qualche particolare interessante.
Il paesaggio era sempre lo stesso, colline e colline piene di strane verdissime palme basse ma ogni dieci minuti di tragitto c erano interi paesi di case a schiera uguali identiche tra di loro. Era come se tutta la gente che abitava li fosse un numero, senza un’identità precisa, una preferenza o qualcosa di diverso dagli altri, almeno il colore della casa!!
“Ciao, sono il numero 13. Abito nella casa n°13. Ho tre figli 13b 13c e 13d”.
L’idea mi aveva fatto una grande tristezza.
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